Il Joia nasce a Milano nel 1989 grazie alla visione dello Chef Pietro Leemann e di un gruppo di amici, con l’obiettivo di creare un ristorante capace di proporre una cucina naturale e innovativa. Nel 1996, il Joia è diventato il primo ristorante vegetariano europeo a ricevere la stella Michelin. Oggi, il Joia è in una fase di transizione per passare sotto la guida degli chef Sauro Ricci e Raffaele Minghini, continuando a rappresentare un punto di riferimento nella gastronomia vegetale d’autore.
L’intervista a Sauro Ricci e Raffaele Minghini
In questa intervista, Ricci e Minghini raccontano come stanno raccogliendo l’eredità di Leemann, con un approccio che unisce artigianalità, sostenibilità e l’ambizione di creare un’esperienza culinaria profondamente consapevole e appagante.
Siamo curiosi di sapere quanto è cambiata la percezione della cucina vegetale dagli anni 90 a oggi
Sauro: “Noi siamo all’interno di questa organizzazione da 12 anni e quest’anno la stiamo prendendo in carico. È un’attività che aderisce ai nostri principi, che va al di là delle mode. Per noi, l’esercizio su quello che facciamo non ha avuto un grande cambio di percezione. Sicuramente però, il riscontro che abbiamo ricevuto in questi ultimi anni, non tanto per il business, ma per il benessere dell’ambiente e delle persone, è aumentato. Dal punto di vista della percezione, devo dire che negli ultimi anni c’è stato un riscontro positivo.”
Raffaele: “Diciamo che negli anni ‘90 il bacino di persone interessate alla cucina vegetariana era sicuramente molto più ristretto. C’era un gruppo di persone che partiva da un concetto culturale, già a partire dalla Vegetarian Society in Inghilterra all’inizio del ‘900. Non si parlava tanto di sostenibilità, ma di principi filosofici: non vedere il mondo animale come una risorsa da sfruttare indiscriminatamente, ma come un campo energetico da considerare negli equilibri sociali.
Un’altra parte del pubblico, negli anni ‘90, era interessata alle tradizioni orientali che prevedono il non utilizzo di prodotti animali, come in India o nel buddismo. Quindi, diciamo che allora il pubblico era molto legato a una consapevolezza di tipo filosofica, teologica ed energetica.
Col passare dei decenni, però, questo bacino è cresciuto, anche grazie ai grandi cambiamenti nell’alimentazione e nel modo di produrre gli alimenti. Oggi ci sono nuovi gruppi: chi sceglie l’alimentazione vegetariana per rispetto del mondo animale e chi lo fa perché molti dei prodotti che consumiamo non sono più sostenibili. Altri lo fanno per motivi di salute, avendo riscontrato benefici fisici in questo tipo di dieta, che permette di digerire e assimilare gli alimenti più velocemente, garantendo comunque una varietà di nutrienti.
Negli ultimi anni, la cucina vegetale è diventata anche una moda, o comunque un’opportunità per il pubblico di mettersi in gioco e provare qualcosa di diverso. C’è meno discriminazione nel dire ‘mangio senza carne e pesce’. Ora c’è curiosità, si vuole capire se questa cucina può essere adattabile al proprio gusto e alla propria soddisfazione. Noi, in questo, cerchiamo di fondare un paradigma basato proprio sul gusto e sulla soddisfazione, e infatti non tutta la nostra clientela è vegetariana.”
E come sono i paradigmi evolutivi della cucina del Joia dall’apertura ad oggi?
Raffaele: “Ti posso dire che, inizialmente, quando Joia ha compiuto il suo primo decennio, c’era una forte impronta di cucina classica, europea o italiana. Il nostro maestro, Pietro Leemann, si era formato con Gualtiero Marchesi, che gli aveva dato una solida struttura. Prima di aprire il ristorante, però, Leemann ha trascorso qualche anno in Oriente, tra Cina e Giappone, dove insegnava cucina europea, ma ha anche imparato quella asiatica.
Da lì, ha portato con sé non solo tecniche, ma anche forme, colori e gusti tipici della cucina orientale. Questo principio è stato ben accolto da noi e ci ha spinto a esplorare ancora di più culture come quella giapponese, che è particolarmente cara al nostro cuore. In questi 35 anni, abbiamo avuto la fortuna di collaborare con chef giapponesi che hanno arricchito la nostra cucina, e ciò ci ha portato a evolverci sempre di più.
L’evoluzione della nostra cucina si basa dunque su due pilastri: uno è la contaminazione culturale e lo scambio di conoscenze, e l’altro è l’insegnamento di Leemann, ovvero cogliere il meglio dei prodotti che il mondo ci offre. Pietro si è focalizzato inizialmente su Cina e Giappone, ma noi abbiamo spinto la nostra ricerca anche verso il Sud America e l’India, esplorando tecniche e sapori di tutto il mondo. Lo facciamo con umiltà e rispetto, arricchendo la nostra cucina con tutto ciò che possiamo imparare da territori che non sono i nostri, ma sempre con l’obiettivo di tutelare e valorizzare anche ciò che è tipico della nostra terra.”
Come fate a trovare un equilibrio nel reperire e proporre certi tipi di ingredienti che generalmente vengono usati nella cucina vegetariana o vegana, come la quinoa o l’avocado? Sono ingredienti che sicuramente fanno parte del nostro bacino, ma sono anche controversi per motivi che hanno a che fare con la sostenibilità e i diritti umani.
Sauro: “La cucina vegetariana ha questa particolarità, è strettamente legata al presente, un presente che è sia globale sia locale. Usando un po’ il neologismo, possiamo dire che è ‘glocalizzata’. Risente della possibilità di rivolgersi ad altre culture, ma anche di sviluppare quello che è tipico della nostra tradizione.
Viviamo in un tempo in cui anche ingredienti esotici vengono prodotti in Italia, e noi cerchiamo di rivolgerci a questi produttori. Siamo un ristorante molto attento alla scelta degli ingredienti e cerchiamo di utilizzare prodotti biologici nella quasi totalità dei nostri piatti.
Sicuramente non è semplice, è un processo che richiede tempo, ma è anche una soddisfazione. Per esempio, abbiamo fornitori di verdure che si trovano alle porte di Milano, poi abbiamo anche un parterre locale più ampio da cui attingere. Tuttavia, la scelta dell’ingrediente resta una peculiarità importante nella progettazione dei nostri piatti.
Il nostro menù è il risultato di un lavoro di squadra con i collaboratori più stretti. Si passa da una fase teorica a una fase di realizzazione, e il menù viene presentato ai nostri clienti con una cadenza quasi bimensile. Ci piace essere sempre alla ricerca di nuovi ingredienti e nella continua progettualità per trovare la migliore espressione di ciò che la terra ci offre.”
E quali sono le sfide principali che affrontate quotidianamente, o comunque quando vi trovate a creare il menù? Ci riferiamo in particolare al mantenimento dei valori di innovazione e sostenibilità, ma anche alla necessità di renderlo accessibile al pubblico.
Raffaele: “La sfida che più mi appassiona è che solitamente non stiamo tanto a sponsorizzare i nostri valori alla clientela. Perché? Perché è una nostra esigenza interna, un valore che dobbiamo rispettare quotidianamente. Guardiamo con interesse alla tecnologia, ma non con diffidenza, piuttosto con cognizione, mantenendola comunque distante dalla nostra cucina. L’artigianalità resta il nostro paradigma. Evitiamo l’uso di stabilizzanti chimici, coloranti o altri additivi che purtroppo si trovano oggi in molte cucine. Questi permettono di trasformare una massa dal colore poco interessante in qualcosa di visivamente stupefacente, ma non sempre adatto alla digestione o alla salute. Nel 2024, questa rimane una delle sfide principali, un baluardo che continuiamo a seguire come prima necessità, sia per me che per Sauro, e infuso in tutti i membri della brigata.
Preferiamo complicarci un po’ la vita attraverso un processo empirico, fatto di prove, tentativi ed estrazioni naturali, meccaniche e manuali, per raggiungere gli standard che desideriamo, sia visivamente che in termini di colore e consistenza, piuttosto che ricorrere alla chimica, che ormai permette di fare qualsiasi cosa (ma a che prezzo? Alla fine, qualcuno lo paga).
Sauro: “Siamo una cucina semplice all’apparenza, di facile interpretazione ma complessa nelle sue elaborazioni. Questa complessità ha il presupposto del rispetto dell’ingrediente, senza mai snaturarlo. I piatti sono, come ci ha insegnato la Nouvelle Cuisine, un insieme di tecniche e di preparazioni che però mantengono un loro riconoscibilità.”
Quindi, direste che la cucina vegetale sia più complessa da realizzare per raggiungere determinate consistenze, a cui un pubblico abituato a piatti come carne o pesce, come dicevamo prima, è già familiare?
Sauro: “A me non piace mettermi in antagonismo con la cucina che contempla anche carne e pesce. A noi piace elaborare un’esperienza gastronomica complessa, soddisfacente, trasversale, ma che non sia partigiana, cioè che non crei una sorta di élite che si erge come superiore. La nostra cucina è complessa, sì, lasciami dire anche “d’autore”, ma è il fatto che mette l’accento sull’esperienza a portarla al livello delle altre. Non è tanto una questione di antagonismo, ma più un’espressione artistica, se posso usare questo termine, per dare un senso di complessità.
Sicuramente, restringiamo il panorama degli ingredienti, non utilizzando animali, ma la nostra ambizione è quella di essere dialogici e relazionali con altre culture e realtà gastronomiche. Questo ci apre moltissime possibilità. È una cucina che si fonda sui presupposti della non violenza e cerca di instaurare un dialogo con tutti: gli altri esseri viventi, le persone che lavorano all’interno del nostro ristorante, i nostri clienti, ma anche con le culture intese come indagini filosofiche e spirituali. Di conseguenza, la nostra complessità sta proprio qui, nel mantenere questa apertura e dialogo, ma portando a un elaborato che deve comunque essere comprensibile.”
In conclusione: secondo voi, quali saranno i prossimi passi per innovare ulteriormente la cucina vegetale, dato che è una tendenza ormai molto consolidata? In che direzione sta andando e quali sono le nuove sfide?
Sauro: “Questa non è una domanda facile, e credo che meriti una risposta filosofica. Secondo me, la risposta dipende dal grado di coscienza. Una coscienza ordinaria, magari ancora condizionata dai sistemi alimentari che sfruttano animali e persone, non percepisce pienamente la realtà. Una coscienza più attenta, che inizia a scegliere con criterio gli ingredienti e i prodotti, vede la complessità e le conseguenze delle sue scelte. Infine, una coscienza, per così dire, purificata, magari grazie a pratiche spirituali, riesce a considerare aspetti più profondi e a prevedere le sfide future e i risultati delle sue azioni.
Quindi, la cucina vegetale fatta con criterio è una cucina che in qualche modo anticipa il futuro. Penso che dobbiamo nutrire la nostra coscienza con cibo sano, perché ciò influisce molto sulla nostra psiche e ci aiuta a prevedere il futuro. Anche se il futuro è incerto, agendo con coscienza, spontaneamente andiamo in una direzione che fa bene a tutti. Questa è la mia risposta.”
Raffaele: “Assolutamente d’accordo. Anche se non fa parte della domanda, la cosa speciale nella gestione della nostra cucina e del ristorante è la corrispondenza tra me e Sauro. Ognuno di noi ha la sua famiglia, il suo gruppo di amici, la sua regione d’origine—uno toscano, anzi maremmano, e l’altro romagnolo—eppure andiamo sempre d’accordo. Quando ci sono divergenze, ci basta parlarne con cognizione, che è spesso la cosa più difficile nelle relazioni. Siamo grati l’uno dei pregi dell’altro e consapevoli dei nostri limiti e difetti. Non abbiamo paura di ammetterli e chiedere aiuto, e questo ci permette di funzionare bene come squadra.
Quello che ci auguriamo è che questa dinamica funzioni anche nel prossimo ruolo che ci aspetta: uscire dalla cucina e interagire con gli ospiti in sala. Ci piace poter trasmettere i nostri principi anche a chi ci viene a trovare, e abbiamo visto che i nostri ospiti apprezzano quando portiamo la nostra filosofia anche fuori dalla cucina.”