Nigiri, hosomaki, uramaki, temaki, sashimi. Quanti i nomi dei piatti della cucina giapponese e quanti dubbi, per chi non è esperto di tradizione nipponica, al momento dell’ordinazione: ognuno ha la sua forma, la sua dimensione, la sua particolarità. Tutti però sono accomunati da un ingrediente principale (il riso) a cui si aggiunge almeno un secondo ingrediente (tipicamente pesce). Ma se togliessimo il pesce e lo sostituissimo con verdure? Si chiamerebbe ancora sushi? Sì, perché filologicamente parlando il termine sushi fa riferimento ad una categoria di alimenti che prevedono riso (il nome significa proprio “riso stagionato”) alla base, a cui possono essere aggiunti pesce, verdure o uova, a discrezione di chi le prepara.
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Quando si parla di sushi vegano la prima immagine che si crea nella mente sono i rotolini di riso dell’all you can eat sotto casa, pallido, acido, in cui se si cerca bene si intravede un piccolo pezzettino verde di cetriolo, o al massimo di avocado. Ma il sushi vegano può essere molto di più. Me lo ha insegnato lo chef Luca Pappalardo, che da Ofelia a Bologna ha messo in atto una vera e propria rivoluzione vegana. Recentemente, a fronte di una crescita della domanda di proposte senza derivati di origine animale, anche l’offerta nel settore ristorazione si sta ampliando. Ma l’apertura di un locale che prepara sushi vagano non lascia indifferenti: le persone o ne sono incuriosite, o decidono a priori che non fa per loro. A cosa è dovuto questo pregiudizio e soprattutto: è possibile superarlo?
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Ofelia si trova nel cuore della città di Bologna, in piazza Aldrovandi, un luogo in cui le persone e le età variano al variare della luce del sole. Al mattino c’è chi frequenta i bar per un caffè, le botteghe per la spesa e l’acquisito di frutta e verdura; a pranzo studenti e lavoratori che trascorrono la loro pausa con più o meno fretta; al pomeriggio si inizia con l’aperitivo e la serata prosegue poi fino a tarda notte. Ofelia è l’ultimo chioschetto della fila (o primo, a seconda del lato da cui si arriva in Piazza). Si distingue a prima vista poiché è il più colorato e, una volta che lo si conosce, si differenzia per la sua filosofia. Il tempo da Ofelia scorre tranquillo, si inizia alle 10 con il caffè della Moka e si prosegue a pranzo con le “schiscette”: ciò che avanza viene poi proposto all’aperitivo, nell’ottica di minimizzare lo spreco il più possibile. Ogni giorno vi sono proposte diverse in base alle materie prime disponibili, quindi si può trovare un sushi con melanzane, zucchine, pomodori o peperoni, così come una schiscetta con tonno, feta o pollo, tutto a pezzi ultra-popolari.
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Ne ho parlato con Pappalardo, chef a Bologna della Trattoria Pane e Panelle, che ha aperto Ofelia quest’estate. Se la proposta della trattoria è sempre stata incentrata sul pesce e su piatti di ispirazione siciliana, Ofelia è invece incentrata sul sushi vegano. Il protagonista del piatto non è il riso, bensì sono le verdure: stagionali, quanto più varie possibili, provenienti da aziende del territorio dove vi è rispetto per la materia prima. Ogni tipo di verdura è trattato separatamente ed è sottoposto ad una cottura rapida, così da esaltare maggiormente il gusto e preservare tutte le proprietà. “Io ho tolto le bacchette”, dice Pappalardo. Il riso è poco in proporzione alla quantità dei vegetali ed è arricchito da una piccola quantità di salsa che completa il tutto (preparata con rafano, frutta secca o maionesi di frutta), senza bisogno di ulteriori aggiunte. Finora non abbiamo mai nominato alternative vegane al pesce quali tofu e seitan: nei sushi di Ofelia non troverete questi ingredienti perché l’attenzione è concentrata sui vegetali, sul loro valore intrinseco, sulla molteplicità dei loro usi e sulla loro sostenibilità etica. Rifornirsi di verdure di ottima qualità e poi acquistare soia di dubbia provenienza sarebbe incoerente e non sostenibile. La sostenibilità deve essere svolta in collaborazione con chi produce, supportandosi e aiutandosi a vicenda, talvolta anche a discapito del margine di guadagno.
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C’è chi ha voglia di sperimentare, di conoscere e imparare, chi invece preferisce affidarsi a gusti tradizionali più noti. Come sottolinea Luca Pappalardo però ci sono alternative per tutti e non è necessario creare conflitti. Io aggiungo: qualunque siano i vostri gusti, qualunque sia la cucina che gradite di più, non fermatevi al termine vegano. Pensate agli spaghetti al pomodoro: anche quelli sono vegani.
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Come regalo di laurea magistrale ricevetti tre buoni per altrettante lezioni di cucina. Ne scelsi una sul pesce, una sulla cucina gourmet e una intitolata “l’arte sul sushi”, la cui insegnante era Noriko Tayama, cuoca giapponese che ha unito i sapori nipponici a quelli della Sicilia. Tra i partecipanti era presente una ragazza vegetariana che voleva imparare la tecnica corretta e ricevere consigli esperti sugli ingredienti da mettere nel roll. La sua presenza mi colpì. Ripenso a quest’episodio perché di fronte alle parole “vegetariano” o “vegano” le reazioni sono tante e varie, in uno spettro che va dall’ammirazione alla non-comprensione, quando non diventa purtroppo maleducazione. L’ascolto privo di giudizio spesso manca: ci sentiamo in dovere di esprimere un parere, sempre e comunque. Ofelia è un posto in cui iniziare ad ascoltare, ma soprattutto a mangiare, bene.