“Sono demoralizzato. Non era mai successo. Non così, non a me. È da fine aprile che non piove. È tutto secco.”
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Sono tornato a trovare Loris Barbetti, il giovane agricoltore – una decina di ettari tra la provincia di Pesaro e quella di Ancona divisi tra ortaggi, cereali e olivi – che qualche mese fa mi ha raccontato quanto sia complicato fare impresa agricola in Italia nel 2021. Avevamo parlato di formazione inadeguata nel settore, di ipertrofia burocratica, di richieste non compatibili con la natura specifica del lavoro agricolo. Questa volta abbiamo parlato di cambiamento climatico.
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Cosa può fare un coltivatore diretto che si trova a lavorare nell’estate in cui l’Europa ha registrato la sua temperatura massima? Si può convivere con questo nuovo scenario? Continuano gli accolli del giovane contadino: niente bandi complicati né crediti negati bensì mesi di siccità e piante che non danno più frutti. Fine agosto 2021, Marche: sono quasi cinque mesi che non piove.
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Arrivo all’azienda di Loris in quella che forse è stata la giornata più calda dell’estate. La macchina segna quaranta gradi e anche oggi soffia il garbino, un vento caldo che viene da terra e asciuga gli occhi, e che nel resto d’Italia è meglio conosciuto come libeccio. Intorno c’è più giallo che verde. Scendo dalla macchina e ogni passo suona come se calpestasse un foglio di giornale accartocciato: è tutto secco.
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Loris mi saluta, è in piedi davanti alla piccola roulotte che tiene all’ombra del grande pino che cresce in mezzo al campo. Quattro galline stanno intorno al pozzo a prender del fresco e bere le gocce d’acqua che cascano dal tubo. “Hai dell’acqua? Se non hai portato niente ci tocca bere pure a noi quella del pozzo.” Ride e mi fa cenno di seguirlo. In un mondo in cui il dove, il quando e il cosa dell’agricoltura sono in continuo cambiamento, ogni scelta, ogni decisione assumono un peso nuovo, mettono in discussione secoli di storia contadina e spingono a immaginare nuove forme e nuovi scenari per l’impresa agricola.
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Dove
“Tutto è fatto in funzione dell’acqua. Quest’anno ho riportato un pezzo di terra vicino al fiume qua di fianco. Son pochi metri quadrati ma le cose che ho piantato lì sembrano non aver sofferto lo stress idrico. Hanno sofferto le nutrie, quelle si.”
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Riorganizzare gli spazi. “Una volta certe colture le potevi mettere in ogni punto dell’orto. La fava la piantavi dove la terra era più secca e bastava l’acqua che veniva dal cielo a farla crescere. Quest’anno ho annaffiato la fava quanto i pomodori, rispetto allo scorso anno ne ho piantata il doppio, ma il raccolto è stato lo stesso. È stato caldissimo e molti fiori non hanno legato”. Con un caldo eccessivo non avviene l’impollinazione e il fiore non si trasforma in frutto.
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Come
“Di chi è l’acqua?” È questa la domanda da porsi. Le risorse idriche vanno pensate in condivisione. Secondo Loris non c’è alternativa. “In molti pescano acqua dal fiume. Il Cesano è già bassissimo e nelle sue acque sta un ecosistema che va mantenuto. Le coltivazioni intensive richiedono molta acqua e pescarla dal fiume è una pratica che va rivista. Se la portata del fiume è normale è un conto, ma in momenti di siccità è ridicolo pensare di farlo. L’ordinanza provinciale che vieta la pratica è arrivata soltanto la scorsa settimana. Una lentezza ridicola, sono mesi che il fiume è ridotto ad un rivolo.”
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Per ridurre lo spreco d’acqua lui ha un impianto di irrigazione a goccia, fa le pacciamature [copertura del suolo intorno alla pianta coltivata per evitare la crescita di erbacce e la dispersione di umidità, spesso si fa tirando a terra dei teli di plastica scuri N.d.R.] con la paglia e gli aghi di pino. “I teli di plastica si stendono in un attimo ma non sono una soluzione sostenibile. Io sono da solo e spargere la paglia, è un’operazione lunga e che va fatta in maniera certosina. Avessi due monelli intorno magari si divertirebbero pure ad aiutarmi.”
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Cosa
“Piaccia o meno stiamo diventando come il Nordafrica. È aridocoltura a tutti gli effetti quella di quest’anno. Bisogna provare nuovi prodotti e studiare quello che fanno in altri luoghi dove tradizionalmente l’agricoltura si è confrontata con climi di questo tipo. Qualche mese fa ho conosciuto Ignazio – si fa chiamare così ma è originario del Senegal. Abita qui vicino. Il fine settimana capita che con le sue figlie passi a trovarmi qua in azienda. Mi ha chiesto se poteva piantare un po’ di arachidi e del karkadè in un angolo dell’orto. Diceva che la terra gli sembrava adatta. Abbiamo provato. Sono le uniche cose che non sembrano soffrire la situazione idrica: le piante di arachidi sono verdissime.”
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Continuiamo a camminare e mi fa vedere alcune spighe rimaste sparute ai bordi di un campo appena ripulito. “Questo è farro monococco, è il primo cereale addomesticato dall’uomo: ha bisogno di poca acqua, cresce dappertutto e si decortica facilmente. Non ha bisogno di concimazione, il tenore proteico è buono e costa poco. Le produzioni non sono alte come per altri cereali ma è la cosa più naturale che puoi tirar fuori dalla terra. Basterebbe che imparassimo tutti a consumare una o due volte alla settimana prodotti come questo per ridurre l’impatto della nostra dieta sull’ecosistema. Però no, vogliamo mangiare la pasta e il riso bianco.
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Essere plant-based è importante ma esserlo in maniera consapevole lo è ancora di più. Rifiutare il trasporto su gomma, prediligere colture a basso impatto, comprare locale, sono tutti accorgimenti che possono fare la differenza. Non voglio dire che le persone debbano diventare ossessive nel fare la spesa, sono il primo a non essere sempre attento alle mie scelte di consumo, ma partire da una base di conoscenza strutturata può davvero fare la differenza e anche la più piccola azione del singolo se svolta in collettività può essere rivoluzionaria.”
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Abbiamo chiacchierato sotto l’ombra di un pino che non ha fatto altro che scricchiolare: sembrava parlasse. Loris non l’aveva mai sentito fare quel rumore prima di quest’anno, dice che forse è il caldo. Lo saluto e torno verso casa. Mentre guido alla mia sinistra si allunga una fila di gelsi: son piante che imagino possano sfiorare il secolo, hanno tronchi larghi e foglie lisce, sono belli e riflettono la luce. Alla fine della fila ne stanno quattro gialli. Sono secchi, si vede che non son riusciti a pescare abbastanza acqua, forse la falda era più profonda lì sotto. Mi intristisco. Continuo a guidare.