Mi piacerebbe poter dire che ricordo con precisione la prima volta che ho assaggiato il rabarbaro. Purtroppo non è così. Sono abbastanza sicura che il momento epifanico si sia svolto da qualche parte in Scozia, un paese dove ho avuto diverse epifanie gastronomiche, alla faccia di ancora pensa che la cucina sopra il canale della Manica sia noiosa e insapore. Ad esempio in Scozia ho scoperto che il burro rende buona ogni cosa – specialmente gli shortbread; che il porridge può essere qualcosa di delizioso, soprattutto se lo insaporisci con panna e zucchero; che l’Italia non è il centro del mondo culinario e che quando si parla di cucina ci sono cose da imparare da ogni popolo. Beh, quasi tutti: nutro ancora qualche dubbio sulla cucina belga.
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Ma torniamo al rabarbaro. A un certo punto di quel periodo scozzese devo aver assaggiato il rabarbaro ed esserne rimasta folgorata. Avete mai sentito il rabarbaro? Se non l’avete mai provato, è molto difficile spiegarvene il sapore, che potremmo generalmente definire acidulo. Partiamo dalle basi: il rabarbaro è una verdura e non, come spesso erroneamente si pensa, un frutto. La pianta erbacea perenne è originaria dell’Asia e in Cina viene consumato da millenni. Si consuma per lo più cotto. Veniva utilizzato nella medicina officinale per le sue proprietà lassative e digestive mentre il suo utilizzo in ambito alimentare è più recente e molto vario: chutney, marmellate, infusi, liquori, torte, dessert…
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Questo il rabarbaro molto in breve. Ma rimane la domanda vera e propria: perché non c’è il rabarbaro in Italia? Parte della colpa si deve alle temperature. Il rabarbaro non cresce sopra i 30°C, temperatura che in buona parte della penisola viene ampiamente superata durante i mesi estivi. E poi non fa proprio parte della nostra cultura gastronomica, né fa parte, almeno in modo significativo, di quella di paesi da cui proviene un numero significativo delle popolazioni immigrate su suolo italiano, e che qui hanno portato alcune delle loro coltivazioni (penso ad esempio al pak choi).
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Facendo ricerca per questo pezzo sono incappata in una notizia a dir poco entusiasmante: da qualche anno in Brianza due giovani ragazzi hanno creato Rabarbaro Italiano, una realtà in cui coltivano ben 7 varietà di rabarbaro, che poi vendono anche ad alcuni dei migliori pasticceri e chef italiani. Vendono anche le piante – il rabarbaro ha pure questa caratteristica, con quei gambi rosa sfumato è tremendamente fotogenico – e prodotti già trasformati come succhi e composte. Nelle interviste raccontano le difficoltà di questo tipo di coltivazione, facendoci forse capire il perché pochi agricoltori si cimentano con il rabarbaro in Italia: non è solo una questione di cultura ma di difficoltà oggettive, a differenza di quanto ad esempio accade con l’avocado siciliano.
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Insomma, le possibilità di reperire il rabarbaro in Italia, a meno di non iniziare a coltivarselo da sé (se decidete di farlo, vi passo il mio numero), non sono ancora tante. Se però riuscite a trovarlo, a quel punto come lo utilizzate? L’unica nozione sull’utilizzo gastronomico del rabarbaro che potreste avere in mente è il Rabarbaro Zucca e quindi essere spaventati dal suo sapore amaro. Sono qui per rassicurarvi: per l’amaro si usa la radice del rabarbaro, molto amara, mentre il gambo, la parte con cui si cucina, è piacevolmente acido ma niente affatto amaro. Pensate che le pubblicità d’epoca usavano stereotipi cinesi e il claim “dal rabarbaro la salute” proprio perché nel liquore c’era la radice, la stessa parte utilizzata dalla medicina officinale cinese per le sue proprietà digestive.
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Se in qualche modo siete rimasti incuriositi e ora vorreste provare il rabarbaro, consigliamo di cominciare da una ricetta come cobbler di rabarbaro o le crostatine al rabarbaro. Il rabarbaro cotto diventa morbido e rilascia tanti succhi acidi che contrastano con una frolla lievemente zuccherata e impregnano le briciole di un cobbler o di un crumble. Fatemi sapere.