Per semplificare potremmo dire che il WWF sta al pianeta animale come Slow Food sta all’universo alimentare. E il progetto dei Presidi Slow Food potrebbe essere paragonato proprio alle Oasi del WWF: si tratta infatti di piccole produzioni enogastronomiche d’eccellenza che vengono riconosciute “a rischio estinzione” e per questo tutelate, proteggendole dai rischi dell’agricoltura intensiva o dell’industrializzazione degli allevamenti, che sacrificano la biodiversità in favore della produttività.
Fondati nel 2000, esattamente 20 anni fa, ora i Presidi Slow Food italiani sono più di 300 e tra loro si contano molte varietà di frutta e verdura. Volete sapere quali sono i nuovi Presidi Slow Food 2020 sul fronte vegetale? Ecco la lista completa.
La cipolla rossa di Breme
Quando si pensa alla cipolla rossa viene subito in mente quella di Tropea, ma anche Breme, in Lomellina, ne ha una tutta sua. Segni particolari: è gigantesca: circa 6-700 grammi in media, ma può superare anche il chilo. Nel 2007 è stato raggiunto il record di 2041 grammi! La sua produzione è limitata al comune pavese di Breme, ad opera di una quindicina di aziende locali. Viene soprannominata “la dolcissima” e non serve spiegare perché. È ottima mangiata cruda, in insalata, oppure come zuppa. Sul sito della storica Sagra c’è anche un ricettario da cui prendere spunto per preparare, ad esempio, la cotoletta alla bremese e la frittura di cipolle
La cipolla di Airola
Regione che vai, cipolla che trovi. Tra i Presidi Slow Food italiani 2020 c’è anche la cipolla di Airola, una piccola cittadina della Valle Caudina, in provincia di Benevento, con una lunghissima tradizione nella coltivazione di questa caratteristica varietà. Forma oblunga, buccia ramata e interno rosa con sfumature violacee, la cipolla di Airola si raccoglie da metà luglio a fine agosto e si mangia cruda e nelle zuppe. Ma il meglio di sé lo da nella ricetta della genovese, con sugo per la pasta a base di carne di manzo e cipolle. Ad Airola la cipolla è un’istituzione. Tra i murales che colorano le vie del centro non poteva mancare quello che raffigura una donna intenta ad affettare una cipolla. Si intitola “Preparing dinner” ed è dello street artist polacco Dimitris Taxis.
La pesca dal buco incavato
La pesca dal buco incavato (bus incavé) di Massa Lombarda, in provincia di Ravenna, è un pezzo di storia della frutticoltura italiana. Questa antica varietà, così chiamata per la profonda spaccatura laterale, a fine ‘800 ha avuto un ruolo centrale nell’avvio della peschicoltura moderna, prima di essere superata da pesche diciamo più “graziose”. Oggi però è in atto una vera e propria riscoperta. La polpa bianca, profumatissima e dolce, della pesca dal buco incavato può essere consumata fresca. Ma vale la pena cimentarsi anche con confetture, versioni sciroppate ed essiccate, nettari.
Gli antichi meloni reggiani
La provincia di Reggio Emilia è storicamente legata alla coltivazione dei meloni e oggi un gruppo di agricoltori è impegnato nel recupero e nella valorizzazione degli antichi meloni reggiani. I loro nomi sono curiosi, cosi come le loro forme. C’è il melone ramparino, medio-piccolo con polpa verde chiaro profumatissima e sapore intenso, quasi piccante. Il melone rospo, invece, ricorda una zucca; ha una superficie rugosa e un gusto piacevolmente sapido. Da citare anche il melone banana Santa Vittoria e il melone banana di Lentigione, così battezzati per la nota marcata di banana.
L’uva pizzutello di Tivoli
Gli abitanti di Tivoli vanno molto fieri della loro uva da tavola, detta pizzutello o anche uva corna. Favorita da un clima asciutto in estate e mite in inverno, l’uva pizzutello non viene piantata a filari ma a pergole, irrigate attraverso un particolare sistema di canali collegati al fiume Aniene. Polposa e croccante, questa varietà si riconosce per gli acini particolarmente allungati, la buccia sottilissima e il colore verde pallido. In bocca è polposa, croccante, dolce al punto giusto. Matura a settembre e va consumata così com’è. Magari in accompagnamento a qualche scaglia di pecorino romano.
Il brovadâr di Moggio Udinese
Dalle montagne friulane arriva il brovadâr (o anche brovedâr) un fermentato di rape viola, tondeggianti e di piccolo taglio, che vengono unite alle loro foglie. La semente è riprodotta anno dopo anno da un gruppo di contadini di Moggio Udinese, impegnati nella produzione. Dopo la fermentazione, il brovadâr viene tritato finemente fino a trasformarsi in una sorta di pesto con cui si insaporano minestre di legumi e carne di maiale.
Il cavolo cappuccio di Collina
Non fatevi ingannare dal nome: il cavolo cappuccio di Collina cresce in montagna, fra i 1100 e i 1330 metri del comune di Forni Avoltri, dove c’è una piccola frazione chiamata appunto Collina. Siamo nelle Alpi Carniche, con un clima freddo e piogge abbondanti, che favoriscono la coltivazione di questo ortaggio su terreni terrazzati esposti a sud. La forma del cavolo cappuccio di collina è schiacciata e appiattita, con foglie ricche di venature rossastre. Da fresco, questo cavolo si apprezza per la croccantezza e il sapore leggermente piccante, ma la tradizione impone di trasformarlo nel craut grap, una preparazione simile a quella dei crauti.
Le pere Klotzen dell’Alpe Adria
Restiamo in Friuli Venezia Giulia per assaporare le pere Klotzen dell’Alpe Adria. I frutti sono piccoli e arrotondati. Dopo la raccolta vengono messi a “riposare” in un luogo fresco e asciutto affinché maturino completamente. La buccia diventa marrone scuro, la polpa concentra gli zuccheri e perde l’astringenza: a questo punto è possibile essiccare le pere, ridurle in farina o sminuzzarle per preparare il pane di pere. La polpa essiccata, fatta rinvenire in acqua, è al centro di una delle specialità più famose della cucina friulana: i cjarsons, ravioli ripieni di pera e ricotta. Dalle pere Klotzen si ricavano anche succhi, sidri, distillati e liquori molto apprezzati.