Di questi tempi entrare nel reparto ortofrutta del supermercato rischia di causare una forte labirintite. Dovunque ti giri, interi muri di agrumi, strani e non, che capitalizzano lo sguardo con i loro colori sgargianti.
Agrumi strani, al di là dei soliti noti
Gli agrumi fanno bene, e probabilmente questo già lo sapete. Quello che forse non sapete è che oltre arance, mandarini e pompelmo c’è ancora un grande parco giochi da esplorare, fatto di altre cultivar meno note, agrumi strani e affascinanti che varrebbe la pena di assaggiare.
Ecco allora un mini dizionario degli agrumi da tenere a mente per cominciare a variare un po’.
A come arancia
Sì, lo so: questo inizio potrebbe sembrarvi un po’ incoerente. Ho appena finito di dire che le arance sono i capocannonieri del “team agrumi” e, anziché concentrarmi sulle varietà minori, parto proprio da loro. In realtà lo faccio proprio per rimarcare che ne esistono tantissime tipologie. Bionde, rosse, dolci, amare. E poi Valencia, Navel, Washington, Vaniglia Apireno, Belladonna…
Il suggerimento è quello di spaziare e andare in cerca di prodotti che non avete ancora provato, magari assecondandone la stagionalità (che non è la stessa, ci sono quelle precoci e quelle tardive). Da noi la punta della piramide qualitativa è rappresentata dalla Ribera di Sicilia, l’unica a fregiarsi della DOP. Sull’isola cresce anche l’arancia Rossa di Sicilia, che può vantare il marchio IGP, varietà Tarocco, Moro e Sanguinello. In Puglia, c’è l’altra IGP, ovvero l’arancia del Gargano.
B come bergamotto
Se la patria italiana delle arance è la Sicilia, quella del bergamotto è sicuramente la Calabria (in particolare la provincia di Reggio) che da sola copre l’80% della produzione mondiale. A spiegare il primato è il microclima, fresco e ventilato quanto basta da permettere alla pianta di sviluppare al massimo il suo bagaglio di aromi.
La maggior parte dei frutti viene sottoposta a un processo di trasformazione. Dalla buccia si ricava il profumatissimo olio essenziale, super ricercato nel campo dall’industria dei profumi. La celebre fragranza CK One di Calvin Klein, per dirne una, ha proprio il bergamotto tra le cosiddette note di testa.
C come caviale di limone
Questa voce avrebbe potuto essere dedicata alla clementina, al chinotto o al cedro (di cui magari parliamo prossimamente). Ho scelto il caviale di limone perché è in assoluto il più curioso tra gli agrumi strani. Detto anche finger lime, è originario delle foreste pluviali australiane: quando i coloni inglesi lo assaggiarono, ne capirono subito il potenziale commerciale e avviarono la coltivazione. La sua forma ellittica ricorda una specie di mini cetriolo.
La magia, però, sta tutta nella polpa, composta di piccole sfere che somigliano a uova di storione. Da qui il riferimento al caviale nel nome. Ah, c’è un altro punto in comune: anche il caviale di limone è piuttosto costoso, ma il prezzo vale l’esperienza. La particolare texture delle sfere esplode letteralmente in bocca, regalando un sentore fresco, soavemente acidulo. Inutile dire che questo agrume è molto amato dagli chef proprio per il suo aspetto scenografico. Tre abbinamenti su tutti: con il salmone affumicato, con l’avocado e, udite udite, sulle ostriche al posto del classico limone.
K come kaffir
Il suo nome scientifico è Citrus Hystrix e in effetti l’arbusto del kaffir (o combava) è caratterizzato da una quantità impressionante di spine. Ricorda il lime sia come grandezza che come colore, ma la superficie della buccia è decisamente più rugosa. Anche il sapore è piuttosto simile a quello del lime.
In Italia è ancora poco noto, mentre la cucina thailandese, vietnamita, ma anche indonesiana e del Madagascar ne fanno largo uso. Del kaffir si adoperano sia il succo sia le foglie, che hanno un sapore intenso e aromatico. Molti barman usano le versioni liofilizzate e disidratate per dare un twist esotico ai loro cocktail.
K come kumquat
Si scrive kumquat, si legge mandarino cinese o fortunella. Dalla pianta nascono dei frutti oblunghi di colore arancio che potremmo anche soprannominare gli agrumi dei pigri perché non occorre sbucciarlo. La scorza è praticamente “fusa” con la buccia, che appare decisamente sottile ed è commestibile.
Il kumquat è diffuso in Oriente perlopiù come pianta ornamentale, ma la sua bontà lo rende interessante anche da mangiare fresco, oppure per preparare delle sfiziose marmellate.
M di mapo
Della mano di Buddha vi abbiamo già parlato. Ora ci concentriamo sul mapo, figlio della felice unione tra il mandarino Avana e il pompelmo Duncan. Anche in questo caso la buccia è sottile: si mantiene di colore verdastro anche quando il frutto è maturo. La polpa invece è di un bel giallo-aranciato. Se il kumquat è l’agrume per i pigri, il mapo è per chi ama il sapore acidulo, ma non eccessivo.
P di pomelo
Stesso discorso per il pomelo o pampalone, un frutto di forma sferica e dimensioni piuttosto grandi, dall’acidità decisamente contenuta. Molti pensano che sia un incrocio tra il pompelmo e la mela, ma le cose non stanno proprio così.
Il pomelo è considerato, insieme al cedro e al mandarino, uno degli agrumi più antichi che l’uomo ha iniziato a coltivare: proprio da questi tre frutti deriverebbe la maggior parte delle specie di agrumi oggi in commercio. La sua dolcezza lo rende un agrume perfetto per la mixology. Siete interessati a uno spunto? Provate la ricetta del Pomelo Mint Mojito o il Canchanchara Ginger e Pomelo.
P di pompìa
Anche la p si merita una doppia voce: pompìa. Anzi sa pompia, come direbbero in Sardegna. Questa pianta cresce solo sull’isola, nell’area costiera della Baronia. La città simbolo è Siniscola. Se la parola pompìa vi ricorda qualcosa, forse siete tra gli spettatori di Masterchef Italia 10. In una delle ultime puntate agli aspiranti chef è stato chiesto di utilizzare alcuni ingredienti “difficili” e fra loro c’era appunto lo strano agrume.
Con questo frutto raro, le cui dimensioni raggiungono i 300 grammi, vengono fatti alcuni dolci tipici molto lunghi da preparare, come la sa pompìa intrea. Si estrae la parte bianca (albedo) che sta tra la buccia e la polpa, la si fa lessare per una decina di minuti e poi la si fa cuocere in una casseruola con il miele per 4-5 ore almeno. In questo modo perde gran parte della sua altissima carica acida.
Y come yuzu
Dal Giappone con furore, lo yuzu è un ibrido tra il mandarino e del kaffir (che a sua volta sembra essere il frutto dell’unione di cedro e limetta: i matrimoni tra gli agrumi hanno qualcosa di Beautiful). La sua estrema acidità non favorisce il consumo fresco; dello yuzu vengono utilizzati soprattutto la buccia e il succo, trasformati per la preparazione di cibi e bevande.
Avete mai sentito parlare del koshō giapponese? È una pasta preparata con scorza di yuzu, peperoncino e sale, ottima sia con sushi e sahimi che con noodles e zuppe. Per gli amanti del cioccolato esiste anche una versione di kit kat allo yuzu, mentre chi cerca qualcosa di ricercato può provare il purè di yuzu in vendita sull’ e-shop di Longino&Cardenal, che rifornisce anche i maggiori chef stellati italiani.