Siamo ancora a Milano – Alzaia Naviglio Pavese, n. 286, per la precisione – ma basta guardarsi intorno per capire che qui la città ha ceduto il posto alla campagna. L’Erba Brusca è un ristorante difficile da definire, e questo contribuisce ad aumentarne il fascino. Un po’ bistrot, un po’ osteria moderna, durante la bella stagione accoglie i clienti in una grande e luminosa veranda, che affaccia direttamente su un orticello amorevolmente gestito proprietari.
Una sorta di “anello di ricongiunzione con la dimensione rurale, cercando di non replicare cliché”: questa è la definizione che si legge sul sito. E noi siamo d’accordo: all’Erba Brusca di stereotipi non se ne vedono e l’atmosfera è country quanto basta per togliersi la giacca, scordare i ritmi frenetici della metropoli e godersi un pranzo o una cena in cui ricerca e gusto convivono senza contrasti.
Ma perché Erba Brusca? Lo chiediamo alla chef Alice Delcourt, che guida il locale con il compagno Danilo Ingannamorte, sommelier e direttore di sala.
«Questo luogo ha un lungo passato di ristorazione: un tempo vi sorgeva l’Osteria del Tubetto, una vecchia e gloriosa insegna milanese. Quando l’abbiamo rilevato, nel 2011, abbiamo pensato a un nome capace di rendere omaggio alla sua storia: una volta qui intorno crescevano distese di acetosella, anche detta erba brusca, che ovviamente abbiamo voluto inserire nelle preparazioni».
Veg power, è proprio il caso di dirlo. Non si tratta di un ristorante vegetariano , ma le verdure occupano il primo posto nella scala degli ingredienti. La chef, cresciuta negli Stati Uniti da padre francese e madre inglese, è arrivata in Italia e si è innamorata della cucina tricolore, tanto da accantonare la sua laurea in Scienze Politiche per mettersi ai fornelli. «Le verdure sono da sempre la mia passione. Quando creo il menu, è da loro che parto. Anche la frutta gioca un ruolo importante: mi aiuta a dare acidità e dolcezza naturale ai piatti».
Nella scelta delle materie prime, i concetti di km zero e stagionalità sono la base di partenza, ma si va oltre.
«Cerchiamo fornitori con una filosofia di sostenibilità ambientale e produttiva. Persone sensibili e motivate, che operano senza chimica, rispettando i tempi della natura. Sono tutte piccole aziende, alcune con noi da quando abbiamo aperto, altre che abbiamo scoperto in tempi più recenti. Trovare i giusti fornitori è quasi un secondo lavoro, una sfida appassionante».
Il 2019 segna una novità importante: l’acquisizione di un terreno agricolo di circa mezzo ettaro per creare un grande orto – ribattezzato l’orto brusco – dove coltivare direttamente frutta e verdura. Un progetto ambizioso, che rende merito all’orientamento green che da sempre connota l’attività dell’Erba Brusca.
«Il vero motore dell’orto è Danilo: è lui che fa il lavoro duro in campo», precisa la chef. «Siamo solo all’inizio e questi mesi sono all’insegna della sperimentazione, stiamo cercando di capire cosa piantare e con quali risultati. Ad aprile abbiamo raccolto le prime insalate…». In campo anche coste rosse e bianche, piselli, taccole, mais dolce, finocchi, cavolo nero, fragole, frutti di bosco, oltre ovviamente alle erbe aromatiche. «C’è poi una grande serra con pomodori, melanzane, tre tipi di zucchine, cetrioli, meloni». Un orto da seguire non è uno scherzo, bensì un impegno quotidiano, che richiede fatica e cura costanti. Da qui la scelta di modificare gli orari di apertura del ristorante, che dallo scorso maggio è in servizio solo la sera da lunedì a giovedì, mentre il venerdì, il sabato e la domenica mantiene il doppio turno pranzo e cena.
Tornando all’orto, l’obiettivo per il futuro è l’autosufficienza sul fronte ortofrutta?
«Certamente vogliamo produrre in autonomia la maggior parte delle verdure e degli ortaggi, ma la strada è lunga e siamo consapevoli che non tutto sarà possibile, anche per una questione di gusto finale. Per le patate, ad esempio, abbiamo deciso che continueremo ad utilizzare quelle del Trentino, che offrono una qualità superiore. Idem per le cipolle, che preferiamo acquistare esternamente, mentre nell’orto abbiamo inserito i cipollotti».
Alice Delcourt usa il termine “semplice” per definire la sua cucina. Ma, come diceva il famoso designer Vico Magistretti: la semplicità è la cosa più complicata del mondo.
«Secondo me, quello che ci distingue come professionisti, è la capacità di rendere interessanti e golosi anche gli ingredienti meno convenzionali, che la gente non ama cucinare o non ritiene particolarmente sfiziosi». Proprio come la frutta e la verdura. «Tra i complimenti più belli che ricevo cito questo, che è diventato un piccolo classico: “odio la barbabietola non la mangio mai… ma cucinata così era davvero buonissima”».
Come ci si riesce?
«A fare la differenza sono lo studio e la conoscenza del prodotto, perché ognuno è un mondo a sé e richiede attenzioni e accorgimenti precisi. Ad esempio il cavolfiore sopporta bene anche i tempi di cottura lunghi, mentre il pomodoro, nel suo periodo migliore, dà il massimo con quelle brevi. Più in generale, parto dall’assioma per cui gli ingredienti vanno sempre esaltati, non nascosti o trasformati eccessivamente, fino a perdere il loro sapore originale».
Cavolfiori, rape, barbabietole, topinambur, asparagi sono tra i must in menù (sempre secondo la stagionalità) e spesso vengono declinati in modi differenti all’interno del piatto.
«Mi diverto molto a giocare con la stessa verdura, creando forme differenti: dal fritto al sottaceto, al brasato, alla purea… in questo modo si crea un mix di consistenze e rimandi di sapore che dona complessità e sfaccettature». «Un esempio? La mousse di ceci brasati con variazione di zucchine: grigliate, fiori di zucca fritti e semi di zucca tostati, che è anche un piatto vegano e gluten free».